Non “Sugar Baby Love” delle Rubettes. Neanche “Sweet home Alabama” dei Lynyrd Skynyrd. E nemmeno “Piccola e fragile” di Drupi. Melinda, mamma di Paolo Remonti, quando era incinta proponeva al nascituro pochi e selezionatissimi suoni: quello del pallone da basket che rimbalza sul parquet e quello, sempre dolcissimo, del “ciuff” quando il pallone entra a canestro e, come si usa dire, fa “solo rete”.
Dopo una vita fetale trascorsa ad ascoltare sonorità di queste genere, cos’altro avrebbe potuto fare il buon Paolino? Ripsosta scontata: il giocatore di pallacanestro. Così, forse abbiamo perso un chitarrista di talento oppure un “crooner” dalla voce graffiata. Ma, con le premesse “apparecchiate” da mamma Melinda e papà Pietro, a sua volta giocatore di buonissimo talento nelle minors varesine degli anni ’70, abbiamo certamente guadagnato un eccellente giocatore, un bravissimo allenatore nonché un grandissimo appassionato di pallacanestro che, oggi, vive e declina basket “H24”.

“A mia madre non piaceva restare a casa da sola così – racconta Remonti -, non si perdeva una partita di mio padre e, in larghissimo anticipo sui tempi, penso mi abbia scarrozzato per tutte le palestre della provincia di Varese. Credo che in qualche occasione, vuoi per la tensione, vuoi per il pathos legato al risultato delle gara di papà, abbia anche rischiato di “scodellarmi” direttamente sul parquet e probabilmente sarebbe stata anche la conclusione perfetta della vicenda. Così, confesso che alla domanda: “Paolo, dove sei nato?”, mi sarebbe piaciuto rispondere: “In palestra Madonna in Campagna a Gallarate. Oppure al Centro Robur, al PalaAriosto di Busto o, ancora, alla “Vecchia” di Azzate”. Insomma: in uno qualsiasi dei “templi storici” delle serie minori dei tempi in cui mio padre, guardia con uno spiccato istinto del canestro, se la cavava più che egregiamente”.

Assodato che DNA e attitudini spingono per un “vizio di famiglia”, quand’è che comincia a giocare davvero?
“Dal primo anno MiniBasket e, immancabilmente, seguendo le orme paterne, subito in Robur. Il primo coach da ricordare è Marcello Conconi che, da imbattuti, ci guida fino alla conquista del titolo regionale nella categoria Propaganda, ottenuto battendo la Tracer Milano nella finalissima. Nei due anni successivi prima pallacanestro Varese, poi Pallacanestro Cantù ci sbarrano la strada verso le finali nazionali e a livello Cadetti, troppo “tappo” e gracile, vengo dirottato verso il gruppo “B” per fare esperienza e giocare tanto. Con coach Beppe Gergati mettiamo insieme un’annata molto buona vincendo la finale regionale contro Caffex Pavia. Arriva finalmente il “battesimo” nel primo campionato nazionale giovanile, ma la divisa è quella della Pallacanestro Gavirate, società nella quale nel frattempo mi ero trasferito. Con coach Enrico Piazza ci comportiamo più che bene mettendo in mostra compattezza e grande carattere. Certo, le doti fisiche non ci permettono di giocare ad armi pari con gli squadroni – Varese, Milano, Cantù, Treviglio, Desio e via discorrendo -, ma nella classifica della grinta e dell’orgoglio siamo sempre ai primi posti”.

Spulciando il mio archivio, a inizi anni ’90 ti trovo addirittura a Bergamo: confermi?     
“Esatto – risponde Paolo -. Frequentando un camp estivo entro in contatto con coach Giorgio Martinelli che mi propone di seguirlo a Bergamo per proseguire il mio percorso nelle giovanili. Di fatto, anche se in sedicesimo, nella città orobica vivo la mia prima esperienza con ritmi da professionista del basket: studio, poco in verità, e tanta pallacanestro con frequenti sedute di pesi individuali al mattino e 4 ore di allenamento tutti i giorni con Juniores Nazionali e prima squadra, allora in B1. A Bergamo, tappa importante sotto il profilo tecnico, vivo una stagione umanamente decisiva perchè dopo essere stato ignobilmente “segato” scuola, torno a Varese e mi ributto sui libri con spirito diverso, certamente con una testa più matura”.

E il basket?
“Coach Vincenzo Crocetti mi accoglie a Gavirate in C1 con un ruolo chiaro: aggregato al gruppo, tredicesimo giocatore e con sporadiche possibilità di entrare nelle rotazioni che, allora, erano a dieci giocatori. La musica cambia l’anno successivo perchè dopo aver fatto “il cinema” al mitico “Torneo Città di Varese”, nel quale vengo premiato come miglior giovane, allenatore e dirigenti mi inseriscono ufficialmente nella rosa della prima squadra, ma…”.

Ma?
“Ma coach Crocetti mi vede solo come cambio di Orrigoni, mentre io sono una guardia fatta e finita con istinto del canestro e scarsa propensione al ragionamento. L’esperimento “crocettiano” non dà grandi risultati perchè in cabina di regia, nonostante la buona volontà, combino guai peggio della grandine mettendo insieme troppi palloni persi e ritmi di gioco francamente approssimativi. Invece, il secondo anno riportato nel mio ruolo naturale di guardia le cose migliorano e andranno nettamente gli anni successivi a Luino, sempre in C1. Nel ’95-’96 a Luino coach Passera mi affida le mansioni tipiche della guardia di “rottura”: difesa super aggressiva e cambi di velocità in campo aperto. Purtroppo però una complicata frattura dello scafoide mi toglie dai giochi nel momento più bello dell’annata. Il secondo anno luinese mi dà comunque grande visibilità e durante l’estate, tra le varie opzioni, scelgo quella fattami da Verbania che considero una fermata decisiva per la mia carriera. A Verbania, insieme ad una compagnia di “pazzi talentuosi” a cui coach Burlotto concedeva abbastanza libertà, vanno in scena alcuni anni di basket show come è raro vederne nella serie minori. Con Barantani, Burlini, Orsi, Nericcio e Tamini è una pallacanestro fatta di schiacciate, tiri da 3 punti “ignorantissimi” e giocate in grado di strappare applausi e richiamare tantissimo pubblico al palazzetto. Del paio d’anni di  Verbania1 ricordo tanti minuti di gioco, tanti punti segnati e tantissimo divertimento”.

Poi?
“Poi, mi trasferisco a Castelletto. O meglio, un “guru” come coach Arturo Benelli, allenatore letteralmente fantastico, mi vuole insieme a lui in Piemonte. Grazie a “coach Arthur” vivo gli anni della maturazione definitiva come giocatore importante sui due lati del campo e con una squadra eccellente vinciamo due campionati consecutivi passando dalla C2 alla B2 con, tra gli altri, un momento tutto da ricordare quando vengo portato in trionfo dai tifosi di Castelletto per i 39 punti segnati nel playoff contro Asti. La B però resta un incubo perchè Benelli lascia Castelletto e coach Tritto, il nuovo arrivato, nemmeno mi considera e mi toglie dalla rosa. A quel punto accetto la proposta di Oleggio, in C2, per vivere un’altra stagione di alto livello e vincere il mio terzo campionato consecutivo e da team esordiente in C1 approdare subito ai playoff rilanciando la pallacanestro in una piazza appassionata e ricca di entusiasmo come quella oleggese”.

L’onda lunga del successo dove ti porta?
“Mi porta, anzi mi trascina impetuosamente verso Saronno, serie C1 chiamato da coach Roberto Piva. Alla SIEV vinciamo la C1 alla grande e l’anno seguente, finalmente, è quello dell’esordio in serie B. E si tratta di un esordio coi fiocchi perchè alla fine del girone d’andata giriamo da primi a pari merito e ricordo di aver visto lo stupore negli occhi del presidente Ezio Vaghi. Il numero 1 della Robur, dopo la nostra vittoria a Castenaso, entra negli spogliatoi dove stiamo facendo baldoria e in tono quasi preoccupato ci dice: “Oh ragazzi, mica avrete intenzione di vincere anche la B2? Mi raccomando, niente scherzi”. Poi, in B1 non ci siamo andati e il buon Ezio si è rasserenato”.

All’alba dei trent’anni, stagione 2003-2004, chiudi idealmente tornando in Robur.
“In effetti, ripensandoci, il mio percorso è stato strano e tortuoso, ma evidentemente sono tornato alla mia “alma mater” al momento giusto perchè, cifre alla mano, e checchè se ne dica i numeri contano, quello trascorso in Robur è stato il mio anno migliore per produzione offensiva e impatto sulle partite. Le uniche note negative della stagione sono rappresentate dall’uscita in semifinale playoff contro Casalpusterlengo ed il fatto che, per ragioni a me ancora sconosciute, non sono stato riconfermato per l’anno successivo. Così, riprendo a viaggiare. Una stagione a Valenza in C1 e altre tre stagioni a Oleggio tra C2 e C1; altre due a Gazzada in C1 e chiudo la mia lunga carriera altri quattro anni a Oleggio che, concretamente, vista la lunga frequentazione posso considerare la mia seconda casa.  Chiusura che, sottolineo, è stata la migliore possibile e immaginabile: un’altra promozione in B proprio allo scoccare dei 40 anni”.

Cosa succede quando appendi le scarpe al chiodo?
“Passo direttamente dal campo alla panchina anche se, in realtà, lavoravo già da qualche anno come responsabile del MiniBasket e con le categorie giovanili di Oleggio. Comunque dopo un paio di campionati trascorsi in qualità di assistente nel 2018 i dirigenti mi affidano la responsabilità di capo allenatore in DNB e al primo colpo raggiungiamo il traguardo playoff. Poi lo scorso prima della definitiva chiusura per il lock-down il club mi esonera e in primavera abbraccio il progetto Basket Ball Gallarate e oggi alleno Casorate in CSilver, l’Under 15 di Eccellenza di BBG e le squadre U14 e U18 targate Casorate. Sono pienamente soddisfatto perchè faccio pallacanestro in un ambiente ricco di entusiasmo, molto ben organizzato, che lavora in maniera sinergica e costruttiva sui diversi poli cestistici che fanno capo all’Hub BBG e, ne siamo sicuri, si prepara a raccogliere risultati davvero importanti”.

25 anni di carriera: chissà quanti aneddoti e racconti avrai.
“Credo che solo con aneddoti e vicende – conferma Paolino- potremmo comodamente scrivere un libro, quindi mi limiterei solo a quelli più eclatanti partendo dai “reati in prescrizione”. Come quando insieme a Mitch Zanatta prendiamo in prestito la Porsche cabrio di papà Marino e, entrambi senza patente, iniziamo a scorrazzare sulle strade che portano verso il Sacro Monte. Però, abbastanza spaventati dopo una curva presa in modo fin troppo sportivo facendo un “pelo” ad un’auto che arrivava in senso contrario, decidiamo di tornare a casa e riporre la Porsche in garage. Tuttavia, non ancora contenti della sciocchezza precedente, prendiamo la maxy moto di Marino e via, più veloci della luce, sullo stesso tratto di strade. Eravamo scemi e incoscienti veri, ma proprio verissimi”.

Altro?
“Bhe, come ti ho già detto, quando giocavo ero abbastanza antipatico e ogni tanto, in preda a furore agonistico, tracimavo con atteggiamenti provocatori nei confronti di avversari e pubblico. Con gli avversari le diatribe si sistemavano direttamente in campo e sono tantissime le circostanze in cui, dopo aver fatto il un po’ troppo il pirla, gli avversari mi hanno fatto assaggiare i loro gomiti. Per dire, penso che Mambretti di Torre Boldone e Angeli di Vigevano la settimana prima di incontrarmi andassero a fare allenamenti supplementari in qualche palestra di boxe. Così, giusto per non perdere la mano.
Oppure Lorenzo Colautti, ex-Castellanza e Gorlese, che dopo avergli soffiato la palla e avergli riso in faccia, l’azione successiva mi fissa con sguardo da “serial killer” e in tono gelido mi sussurra: “Se mi rubi un altro pallone, ti ammazzo a mani nude!!”.
Ricordo che una volta con la Robur, giocavamo a Omegna, dopo una mia tripla ho avuto la malaugurata idea di fare il gesto di Batistuta, indice sulle labbra a indicare “Muti!”, alla gente di Omegna già incazzata come una mandria di bisonti. Mentre intorno a me si scatena l’inferno, coach Zambelli mi richiama in panca e mi avverte: ”Remo”, appena suona la sirena scappa via velocissimo verso gli spogliatoi”.
Al “buzzer”, pur volando negli spogliatoi mi becco lo stesso qualche “cartella” da parte dei giocatori di casa, inferociti pure loro, e una prevedibile montagna di insulti. I tifosi di Omegna intanto rumoreggiano e mi cercano per fare giustizia sommaria. Solo un’ora dopo la fine della partita riesco a svignarmela scortato e protetto dalle mie guardie del corpo preferite: Premoli e Fontanel”.

Altro?
“Bhe, visto che Fontanel non l’ha raccontata, ti dico di quando ci siamo dimenticati Fulvione nei bagni dell’autogrill vicino a Monfalcone e credo di ricordare di essere stato proprio io a dare l’ok al nostro autista”.

Altro?
“Mitici i ricordi del torneo di 3 contro 3 organizzato in occasione dell’arrivo di Allen Iverson col “Reebok Pro Tour”. Col nostro terzetto abbiamo battuto quello di Andrea Conti e Mambretti, mentre, adesso posso rivelarlo, in semifinale abbiamo fatto vincere quello di Andrea Meneghin, Besnati e Di Sabato. A proposito di Mariolino aggiungo che non aver mai giocato insieme a lui è uno dei grandi crucci della mia carriera perché, mia opinione, Di Sabato è stato uno dei più grandi registi mai visti nelle serie minori”.

Cosa racconti invece del “Capitolo Islanda”: hai giocato pure là, in cima all’Europa.
“In effetti, non mi sono fatto mancare nulla e per circa un mese, insieme a Barantani, ho giocato a Saudar Krokur, città di 2000 abitanti nel nord dell’Islanda, nella squadra del Tindastoll. E, ovviamente, come puoi immaginare, abbiamo vissuto un’esperienza clamorosa a metà tra pallacanestro professionistica e vacanza, assistiti da un procuratore-carpentiere che dopo le partite si infilava la tuta da lavoro e andava in fabbrica e con compagni di squadra che, nemmeno il caso di dirlo, giocavano in serie A quando erano liberi da impegni professionali. Tant’è vero che la mattina della finale dei playoff, che lassù si giocano una gara dietro l’altra, ci siamo presentati in 5 e in coppia con Barantani abbiamo segnato 102 punti con un divertimento pazzesco. Praticamente abbiamo tirato verso canestro tutto quello che ci è passato fra le mani. Anche una lavatrice, credo…”.

In mezzo c’è la tua “Shooting School”.
“Insieme al mio amico e socio Andrea Brignoli portiamo in giro per l’Italia la nostra scuola di tiro offrendo alle società che ce lo richiedono la possibilità di effettuare allenamenti specifici indirizzati al miglioramento globale di un fondamentale: il tiro. Abbiamo a disposizione una “macchina spara palloni”, la stessa che usano nei College o i Pro NBA, e oltre alla nostra esperienza ci avvaliamo dell’esempio visivo offerto da Alex Acker, grandissimo giocatore professionista il quale, oltre a vantare un ventina d’anni di pallacanestro spesi ad alto livello tra NBA e top team europei anche in Eurolega, è un eccellente insegnante”.

E poi ci sono famiglia e lavoro.
“La famiglia – mia moglie Elena, mia figlia Giulia, classe 2003, mio figlio Filippo, classe 2006 -, vive di pallacanestro e quindi mi assecondano. Professionalmente invece, dopo aver messo finalmente la testa a posto, mi sono laureato in Scienze dell’Educazione e il mattino lavoro per la Cooperativa L’Aquilone come educatore di sostegno al De Filippi di Varese”. 

E’ il momento delle classifiche.
“So come funziona Il “giro”. Quindi per i compagni delle giovanili scelgo alcuni ragazzi della formazione Propaganda, classe 1974: Carlo Speroni, Enzo Cosentino e Claudio Corti. Per il quintetto preferito dico: Stefano Antonetti, Marcello Parola, Claudio Vasini, Andrea Barantani e Daniele Loro.
Come avversari più temibili scelgo: Andreas Brignoli, Marcello Parola, Matteo Margarini, Mario Di Sabato, Totò Nasuelli, Stefano Leva e Maurizio Giadini. Infiune, tra i compagni di squadra più importanti vado con Stefano Leva, Daniele Benzoni, Daniele Biganzoli, Fulvio Fontanel, Ale Burlini, Charlie Setola, Fabrizio Premoli, Marco Tamini, Dino Boselli, Marco Cavalleri e chiudo con l’immenso, e tanto sfortunato, Valentino Schizzarotto”.

Allenatori?
“Cito Pier Zanotti, grande allenatore e uomo di notevolissimo spessore. Pier è stato, ed è tuttora, il mio mentore tecnico, il coach a cui faccio riferimento quando voglio approfondire temi cestistici. Quello che oggi propongo in palestra è frutto di mille ragionamenti fatti insieme a Zanotti, coach con ottima capacità d’analisi e una metodologia di lavoro in palestra che condivido al mille per cento”. 

Massimo Turconi

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